Giocherellona

Parlo correntemente 5 lingue. Sono belga, dunque non me ne vanto. Per noi belgi è abbastanza “normale”, diciamo non troppo “speciale”. Quasi tutti parlano 3 o 4 lingue nel nostro Paese, almeno quasi tutti quelli che hanno studiato un po’. L’uno più fluente dell’altro, ma tutti con la modestia che caratterizza il mio popolo (e di cui, ora che ci penso, mi sento anche fiera).

Come fiamminga, quando parlo il nederlandese, rispecchio quella modestia: nelle parole che uso, le frasi che faccio, i commenti che penso ma che non pronuncio e se li pronuncio lo faccio in un modo che non possa offendere nessuno. Parlo a voce bassa, non alzo quasi mai la voce, (“ma tu sussurri quando parli”, mi dicevano gli amici italiani). E mi sento anche così: non farsi vedere troppo, non essere troppo diversa, non farsi notare, …

Per fortuna la mia migliore amica è spagnola. E io cerco di combinare frasi che assomigliano allo spagnolo (o che lei almeno finge di capire – e le sue risposte alle mie domande hanno stranamente anche senso). Perché quando parlo spagnolo mi sento tutta diversa. La mia voce cambia addirittura, cambia di tono, ha una tonalità inferiore, più bassa e parlo più forte. E oso gridare, oso alzare la voce, mi faccio sentire. Pare che ci sia più forza: nella voce, nella gola, ma non solo, in tutto il corpo. Mi sento più sicura di me (anche se il mio livello di spagnolo lascia a desiderare) e si vede. Mi vesto come mi pare, e viene accettato. Gonna troppo corta, colori troppo visibili, chi se ne frega! Non è mica una gonna da flamenco, e anche se fosse così nessuno girerebbe la testa quando passo per le strade di Granada. Ridiamo a voce alta, parlo con la gente, se non sono d’accordo lo dico. Con la mia voce bassa, dura e forte. E sento il sangue scorrere per le mie vene. E sento la voce della mia amica “tu tienes un alma del sur”, e brillo e sorrido alla vita, evvai, eccoci qua.

E poi torno al mio sé poetico, teatrale, esitante quando parlo in francese, la seconda lingua del mio Paese. Mi piace pesare le parole in francese, e ne uso tante di parole quando parlo in francese. Perché in francese pare che servano più parole, che bisogna fare una piccola poesia per poter esprimere quello che vuoi dire. E poi ci vuole anche dirlo con un po’ di teatralità. Non puoi “semplicemente” parlare francese. Almeno io non posso. Mi devo sentire un po’ più importante del solito, il naso un pochino all’insù, un po’ più convinta di me ma poi misurando ogni parola, cercando di arrivare a un’esattezza in parole, frasi e intonazione che mi da un’insolita fiducia che si rispecchia nei miei occhi quando parlo. Una mia cara amica francofona a volte muore quasi dalle risate quando proclamo con una serietà infinita le stronzate più banali in francese. E nemmeno quello mi tocca. Un occhiolino e basta. On y va!

Fortunatamente c’è l’inglese. La lingua che mostra tutto un altro io. Quando mi metto a parlare in inglese (preferibilmente con un leggero accento britannico) mi viene sempre in mente o David Attenborough (il biologo inglese appeso nei rami dell’Amazzonia commentando a voce bassa l’accoppiamento di due mammiferi a poca distanza) oppure John Cleese o Michael Palin dei Monthy Python. Comunque il risultato è lo stesso: divento apparentemente seria. Ma sotto sotto c’è quello scintillo negli occhi, quella consapevolezza che tutto quello che dico sono solo parole, che in fondo sappiamo tutti che la cosa più importante non sono le parole, ma le immagini, quello che sta dietro le parole. E questa relatività delle cosa mi dà una certa leggerezza. Una leggerezza nella mia esistenza. Non importa niente più di tanto. Non devo prendere le cose così sul serio. Non quello che dico, ma forse nemmeno quello che faccio, quello che vivo. Che libertà.

E poi c’è l’italiano. La mia “seconda” madrelingua. Anche se di madrelingua ha poco. Non ho né una madre né un padre né un parente lontano che parla l’italiano. Quasi tutti i miei amici però parlano o capiscono l’italiano. Anche quelli di cui non l’ho mai saputo (così scoprii di un amico dopo un’amicizia di più di 15 anni, che anche lui parla correntemente l’italiano) e anche quelli nuovi (non mi sorprende più che gente con cui sento un “clic” dopo qualche incontro mi confessa di parlare l’italiano). Così che ho l’impressione che quasi tutto il mondo parli l’italiano (o almeno il mondo che mi circonda). E forse essendo circondata da un mondo italoparlante considero l’italiano come una seconda madrelingua. E quanto mi fa bene l’italiano. Mi sento più giocherellona in italiano. Oso sperimentare con le parole, con le strutture. Mi ricordo ancora che quando abitavo a Roma, i miei amici lo adoravano quando creavo “nuove” parole italiane, inesistenti ma tutti le capivano e poi, il colmo, tutti iniziavano ad usarle. Così che dopo qualche tempo incontrai gente sconosciuta che usava le “mie” parole, facendo il fighetto. Avrei dovuto chiedere il copyright, mannaggia. Ma dunque sì, mi piace “giocare” in italiano, giocare con parole, intonazioni, gesti, suffissi, speziare la lingua.

E il bello è che tutte queste caratteristiche fanno parte di chi sono, parti a volte ben nascoste, che vedi solo spuntare quando parlo una certa lingua. “Parlare un’altra lingua, è scorprire un altro sé” o forse meglio, parlare un’altra lingua è far crescere un’altra parte di sé, è bilanciare le parti di sé che formano il sé complesso e unico, che siamo tutti. Penso che non esista una migliore forma di terapia, di conoscere se stessi, di diventare sempre di più se stessi parlando le lingue. Evvai!

Amaryllis

Nata in Belgio
Vive a Hasselt