Stare con me stesso

#diario estivo

I tempi della pandemia e dell’isolamento sociale mi hanno sorpreso da solo. Solitudine confortevole, devo ammetterlo, ma pur sempre solitudine. A casa mia ho un salotto di buone dimensioni, due camere con bagno e una piccola cucina; un lusso per chi vive da solo. Quando l’ho comprata, ho scelto un’esposizione interna; non volevo sentire i rumori della strada, in particolare quelli che producono le motociclette, che si fanno concorrenza tra di loro per vedere chi fa il più grande fragore in accelerazione. La disposizione della casa e gli alberi che ho davanti alle finestre attenuano la sirena delle ambulanze che turbano di notte quando trasportano persone in gravi condizioni. Nel paese dove sono nato si diceva che la sirena dell’ambulanza veniva usata anche per impedire che la pizza si raffreddasse, o le “empanadas”, che i ragazzi dell’assistenza sanitaria andavano a prendere nei momenti in cui le emergenze scarseggiavano.

A volte mi ritrovo a cercare distrattamente la voce della donna che mi ha accompagnato generosamente per quarant’anni; nella buona e nella cattiva sorte, che non è mancata. Ma dieci anni fa, dopo aver sofferto una lunga malattia, mi ha reso orfano. Ed eccomi qui, dedicandomi ad altre cose, come si dice.

Altre volte, percorrendo la casa con lo sguardo, cerco una voce con cui parlare o, meglio ancora, con cui discutere. Questo può sembrare strano, ma il “gioco dei dissensi oratori” ha alimentato la mia vita. Ho vissuto la concorrenza verbale con vero interesse. Fonte di apprendimento, strumento di costruzione di relazioni solide e, soprattutto, meccanismo efficiente per addomesticare, pacificare, o a malapena circoscrivere un ego con tendenze espansive, a volte smisurate.

Stare da solo mi confronta con nuove sfide, inimmaginabili senza la presenza del virus. Agli amici che vogliono rompere la mia solitudine con chiamate occasionali dico che l’unico avversario che ho sono io stesso. Con lui inizio una discussione rigorosa sul sì o sul no, in realtà l’argomento non ha importanza; può essere una storia passata, o un recente evento politico. L’essenziale è la polemica; l’aspetto scoraggiante è che sempre ne esco sconfitto.

Il mio avversario mi conosce molto bene, quasi meglio di me stesso. Conosce i miei punti deboli, le mie bugie appena mascherate, le mie trappole, l’uso e l’abuso che faccio dei ricordi, abilmente manipolati. Lui conosce tutto, o lo scopre; è semplicemente esasperante. E non riesco a smettere. Mi sto impegnando in una battaglia che so persa fin dall’inizio, ma a cui non posso resistere. Mi incoraggia la speranza che a un certo punto lo sorprenderò, sviandolo con una mossa geniale, un argomento sconcertante, qualcosa che lui non si aspetta. Naturalmente, la scoperta dell’argomento che avrebbe fatto a pezzi il mio avversario arriva tardi, quando il momento giusto è già passato.

Si tratta di qualcosa di simile a una partita a scacchi con un solo giocatore in cui, dopo ogni movimento, si gira la scacchiera e si cerca il pezzo e il movimento inaspettato, quello che può sorprendere e confondere l’avversario, vale a dire se stessi; situazione difficile da elaborare nei tempi consentiti per la replica, tempi imposti dalle regole del gioco. Fatta la mossa, si gira nuovamente la scacchiera e lo stesso giocatore affronta la stessa sfida, installato con rinnovata intensità.

Nelle discussioni che ho con me stesso non c’è la regola del tempo massimo, ma entrambi gli avversari sappiamo che l’attesa indebolisce. La replica, per essere efficace, deve essere immediata, incisiva, forte, sorprendente. Il ritardo nel trovarla è vissuto dall’altro come un segno di debolezza oratoria o intellettuale e viene sfruttata per indebolire l’animo e le difese di chi arriva in ritardo.

Questi tornei discorsivi mi fanno temere che, una volta terminata la pandemia, non riuscirò a trovare qualcuno che voglia discutere, o parlare, con me.

Ivan

Nato in Argentina
Vive a Buenos Aires