Mito mio

Nel lontano 1985 ho fatto un semestre all’estero con la mia università in Toscana, nelle colline del Valdarno in mezzo alle vigne e agli olivi, in piena campagna. Vicino alla scuola c’era un paesino, Ponte Agli Stolli, e lì c’era un bar, frequentato dai vecchi del paese e alcuni ragazzi di Figline, il paese nella valle. I ragazzi venivano in cerca delle ragazze americane della nostra scuola, e ho fatto amicizia con alcuni di loro, Andrea, Claudio, Paolo, Daniele e Fabio. Passavo tutte le sere lì al bar con loro. Parlavano un po’ d’inglese e io avevo appena cominciato a conoscere l’italiano. Non sapevo niente dell’Italia o dell’italiano prima di venire – tabula rasa, ero. Una sera, al bar con gli amici, Claudio mi ha preso dalla spalla con una mano e mi ha stretto vicino vicino a lui dal collo per dirmi qualcosa di personale. Non mi ricordo affatto cosa mi ha detto, ma quel gesto, quello di stringermi vicino a lui, praticamente guancia a guancia, mi rimane oggi come un momento fondamentale. Mi ha spaventato quel gesto, non abituato com’ero a questa fisicità tra amici, quest’invasione del mio spazio, questo tipo di intimità. Per lui era normale – eravamo amici, voleva parlarmi privatamente, ed ecco, mi ha fisicamente accostato per farlo. Bellissimo.

Un’altra volta qualche mese dopo quando invece di tornare a casa alla fine del semestre mi sono trovato in una stanza in una fattoria lì vicino, sempre con Claudio, in macchina tardi una sera, mi ha detto nel suo inglese imperfetto, “Io posso andare via da qua un fine settimana, o in vacanza per qualche settimana, ma questo posto è casa mia e più di quello non riesco ad allontanarmi. Che cazzo ci fai qui?” Non avevo all’epoca una risposta pronta.

Potrei dire che ho passato la vita a trovare una risposta a quella domanda. Posso solo dire questo: quei primi passi con l’italiano, passi che non avevo programmato di fare e che mi hanno colpito di sorpresa, mi hanno aperto a possibilità la cui esistenza non avevo mai immaginato. Non parlo della storia, o della filosofia o dell’arte che i professori hanno cercato di insegnarmi. Non avevo tanto tempo per quelle cose, e infatti quel semestre non ho fatto quasi niente di tutto ciò. Ho preso un motorino, invece, e ho girato tutto il Valdarno con il mio libro di grammatica che ho trovato al negozio di libri usati a Firenze, fermandomi nei bar dei paesini nelle colline per cercare di parlare con la gente. Non era facile per me, essendo introverso e cupo di natura, ma parlando italiano mi sentivo più libero – libero di attaccare, sbagliare, riderci su.

Non è mai cambiata questa cosa. Dopo qualche anno tornai in Italia, in Veneto, per vivere e mi trovai ugualmente bene. La cultura era diversa dalla Toscana provinciale, ma io no – parlando italiano mi sono sentito libero di dire la mia in modo genuino (e anche ingenuo…) e ho fatto amicizie che sono durate tutta la vita. Effettivamente, fare lo straniero in Italia mi libera. Direi che alla fine mi sento straniero anche a casa mia e quindi venire in Italia a parlare una lingua straniera con gente che ha vissuto storie molto diverse della mia mi sembra normale, giusto. Straniero lo sono sempre stato. L’italiano mi rende più aperto, più comodo, più sciolto e sopratutto più contento. Sarà qualcosa nel carattere della gente, quella fisicità e espressività che mi attraggono, e poi tutte le assurdità della vita in Italia che si affrontano ogni giorno, che si condividono in autobus tra persone che non si conoscono. Anche uno straniero può sentirsi di far parte di quella conversazione.

Mi chiedo delle volte se sarebbe stato lo stesso se fossi andato in Francia, Giappone o Germania, ma veramente credo di no. Forse in Grecia sì, perché anche lì sento una cosa simile quando sto con la gente, e poi c’è la musica greca che mi tocca il cuore e mi eccita l’anima. Ma per puro caso sono venuto in Italia, e in Italia ho imparato una lingua che mi permette di esprimermi come sono. Almeno questo è il mito che racconto a me stesso. La mia famiglia, o i miei amici negli Stati Uniti avranno forse altre spiegazioni. Chissà. Ma i miti ce li creiamo noi stessi, e mi accontento del mio. Mi va bene così.

Wade

Nato negli Stati Uniti
Vive a Dallas